Ticino Film Commission
02.12.2023 . Anteprima Tv

«Alter Ego: il nostro thriller nordico ambientato a Bellinzona»

Alla vigilia della messa in onda i registi Erik Bernasconi e Robert Ralston raccontano la nuova serie tv

Gian Marco Tognazzi in "Alter Ego" (©Amkafilms) e sotto i registi Erik Bernasconi e Robert Ralston (©Simone Mengani)

Bellinzona, durante il Carnevale. Il corpo di una ragazza viene ritrovato in un campo poco fuori città. Per la squadra incaricata delle indagini guidata dal commissario Blum, è l'inizio di un viaggio in un passato pieno di ombre, dove ognuno porta una maschera. Si apre così Alter Ego, nuova serie poliziesca che, dopo le recenti anteprime al GIFF – Geneva International Film Festival e a Castellinaria – Festival del cinema giovane a Giubiasco, debutta in televisione martedì 5 dicembre, alle ore 21.10 su RSI LA 1 con i primi due dei sei episodi. 

 

Una fase di scrittura iniziata nel 2019. Undici settimane di riprese svoltesi nel Bellinzonese tra febbraio e aprile di quest’anno. Una squadra numerosa e in massima parte ticinese, composta da oltre 80 professionisti, più di 500 comparse e una cinquantina di attori. Sono alcuni numeri della serie, prodotta da Amka Films in co-produzione con RSI SSR SRG, sostenuta dalla Ticino Film Commission e patrocinata dalla Città di Bellinzona. Protagonista l’attore italiano Gian Marco Tognazzi, in un cast dove non mancano conosciuti volti svizzeri come Anna Pieri Zürcher o Bruno Todeschini e ticinesi come Igor Horvat, Tatiana Winteler, Roberta Fossile, Margherita Coldesina, Jasmin Mattei o Max Zampetti per citarne alcuni. Completamente Made in Ticino, la serie punta a varcare i confini della Svizzera italiana e nazionali:  i diritti di vendita internazionale sono stati già acquisiti dal distributore indipendente francese Wild Bunch TV.

 

Alla vigilia della messa in onda, ci tuffiamo dentro Alter Ego insieme  ai due registi della serie, il ticinese Erik Bernasconi (Sinestesia, Fuori mira) e il grigionese Robert Ralston (Il demolitore di camper)..

 

Cominciamo dalle location. Come siete arrivati a individuare in Bellinzona il set ideale?

 

EB: «Le varie fasi di scrittura hanno trasformato il progetto e fatto in modo che l’ambientazione diventasse molto importante. Bellinzona è diventata il posto giusto per la storia praticamente dalla seconda tappa di sviluppo di sviluppo della sceneggiatura.  C’era anche la possibilità di ambientare la vicenda in un paesino di montagna, ma abbiamo scartato molto in fretta questa opzione perché alcune delle dinamiche che stavamo mettendo in scena sarebbero state difficili da immaginare in un posto così piccolo.  Bellinzona ci è sembrata perfetta per dimensioni e perché nella sua cittadella medievale raccoglie in qualche modo anche l’idea del thriller che stavamo raccontando, quell’ingabbiamento in alcune dinamiche psicologiche che portano allo svolgersi della trama. Poi Bellinzona di per sé ha un elemento molto importante che io da bellinzonese amo molto e che, con la naturalezza che hanno le cose che evolvono, è arrivato ad avere il suo ruolo: il carnevale.»

 

RR: «Io non ho seguito la genesi del progetto nelle sue diverse fasi di scrittura, sono arrivato uno volta che è stato deciso che la serie si sarebbe girata. L’idea del carnevale all’inizio mi straniva un po’, ma Erik mi ha convinto che questo elemento ci avrebbe aiutato tantissimo. Raccontiamo infatti una situazione di caos esterno che si specchia in un caos interiore e quei contrasti molto forti sono stati utilissimi alla storia. Anche secondo me la scelta di Bellinzona come location funziona molto bene, come dimensioni, per i suoi castelli, per le incombenti montagne attorno. Abbiamo girato d’inverno – anche se non si vede tanto perché faceva sempre bel tempo (ride, ndr.) – e c’è quindi quell’atmosfera un po’ cupa che abbiamo cercato in tutti i momenti e che si adatta alla storia così come l’abbiamo immaginata noi.»

 

È la prima serie di queste dimensioni e di questo respiro che viene realizzata interamente in Ticino. Qual è stata la sfida maggiore?

 

RR: «La sfida più grande era il pochissimo tempo che abbiamo avuto per preparare tutto. Non sto parlando delle riprese ma del momento in cui ottieni l’ok e devi capire cosa fare veramente con la sceneggiatura, come la traduci in immagini, dove, con chi lavori. Le cose grosse le devi capire prima di girare. Questa secondo me è stata la fase più impegnativa. Poi quando giri, ogni giorno è una battaglia ma alla fine si tratta di piccole cose. Dipende tanto dai collaboratori che ti scegli e siamo stati molto fortunati.»

 

EB: «Abbiamo avuto la bellissima occasione di creare una specie di dream team delle conoscenze cinematografiche ticinesi. Alcuni di coloro che hanno partecipato ad Alter Ego sono ticinesi che vivono fuori cantone, come il direttore della fotografia Pietro Zuercher che sta a Losanna. Nella sua squadra c’erano diversi ticinesi che vivono a Zurigo che però sono tornati per realizzare la serie: un progetto così grosso risulta attrattivo anche per chi ha cercato condizioni lavorative più stabili altrove. Sembravano tutti molto felici di essere tornati a lavorare a casa. Naturalmente c’era anche chi vive e lavora nella nostra regione e qualcuno naturalmente è venuto da fuori: abbiamo combinato con molto piacere tutti questi saperi. Aggiungo una nota generica riallacciandomi alla questione delle sfide. Una di queste è stata la grande quantità di lavoro, non solo per noi registi ma per tutti, la produzione, i reparti creativi, eccetera. In pratica è come se avessimo realizzato tre film nel tempo – che è già stretto – che normalmente si ha per farne due. Questo ci ha obbligati a lavorare in modo molto preciso e a volte il più velocemente possibile, a prendere decisioni molto in fretta. Però siamo stati attorniati da tanta passione e tanta voglia di fare da parte di tutti. Questa è una cosa sulla quale ci piace insistere.»

 

Nessuno di voi viene dal thriller. Per un soggetto del genere come vi siete preparati?

 

RR: «Devi capire il linguaggio di questo genere. E se, come in questo caso, ci sono due registi, occorre che si intendano fra loro, ma su questo siamo stati molto fortunati. Ovviamente ci siamo preparati, abbiamo guardato tanti noir e thriller. Abbiamo voluto usare alcuni elementi che ci piacevano e che potessero raccontare la nostra storia nel modo più forte. Si trattava di analizzare altri film, altre serie e i nostri gusti, mescolare tutto e capire, assieme al direttore della fotografia, come raccontare questa storia nel poco tempo che avevamo a disposizione: quando hai due ore per realizzare una scena, non si scappa.»

 

EB: «Io credo che per noi sia stata una fortuna essere alla prima esperienza di thriller, perché abbiamo messo in campo umilmente la nostra ignoranza. Io e Robert siamo partiti dallo stesso livello. Avevamo identificato il tipo di thriller che volevamo fare. C’è un episodio divertente. A un certo punto io parlavo di una serie e Robert di un’altra, o così ci sembrava. Io mi riferivo a The Killing, una serie danese (di cui è stato realizzato anche un remake americano, ndr.) e Robert parlava del Commissario Lund. La nostra differenza linguistica ha fatto sì che non ci accorgessimo subito che stavamo parlando della stessa cosa (ride, ndr.) perché il Commissario Lund non è nient’altro che la protagonista di The Killing! Quindi senza saperlo siamo partiti dalle stesse basi e dagli stessi gusti e questo è stato fondamentale.»

 

Avete citato The Killing e in effetti, Alter Ego è stato da più parti accostato al cosiddetto nordic noir. Quali elementi in particolare volevate fare vostri di questa declinazione del genere? Non eravate preoccupati che di base il Ticino non evocasse subito quel tipo di atmosfere?

 

EB «Credo che sia sempre facile definire i ticinesi come mediterranei, ma in realtà secondo me non lo siamo poi particolarmente, siamo vallerani, siamo svizzeri. Questo per dire che io non sento così diverso il modo di essere delle persone. Dal thriller nordico volevamo prendere prima di tutto il modo di rappresentare i personaggi. In più avevamo bisogno di confrontarci con un modello che non fosse inarrivabile sulla carta. Gli scandinavi riescono grazie alla loro bravura a realizzare dei prodotti di grande valore senza dispiegare mezzi enormi come fanno gli americani. Ci siamo detti che se avessimo lavorato bene, forse quello che fanno gli scandinavi avremmo potuto provare a farlo anche noi.»

 

RR «Quello che ci ha intrigato è stato l’uso della camera in maniera espressiva. La macchina da presa doveva aiutarci veramente a entrare nella psicologia dei personaggi, perché è quello che fanno i nordici, loro usano l’elemento visivo per raccontare lo stato interiore dei protagonisti.»

 

EB: «E anche con un certo minimalismo. I personaggi – tutti gli esseri umani – vivono grandi emozioni, però c’è modo e modo di esprimerle. Il modo nordico, quello che ci interessava, è quello dei gesti piccoli che raccontano grandi emozioni. Non so se ci siamo riusciti ma il tentativo è stato questo. Nell’uso della camera, nella recitazione, nel rapporto dei personaggi con lo spazio, l’idea era quella di raggiungere una delicatezza che potesse raccontare qualcosa di grande. Poi va be’, in giornata dovevamo portare a casa 7 o 8 minuti di girato e certe volte quella delicatezza ce la dimenticavamo, ma ci abbiamo provato sempre!» (ridono, ndr.)

 

FC

 

 

 

 

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