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Sedici film tra i tanti, uno in fila all’altro. Sedici film che hanno saputo raccontare il Ticino o che scegliendolo come set hanno saputo conquistare il pubblico, dal 1945 al 2019. 74 anni, precisi. Gli anni del Festival.
Collezione: Locarno Film Festival
Un percorso tra epoche e generi, tra set locali e internazionali, tra film scoperta, film trampolino e film destinati a tracciare un solco, come fossero valli in cui insediare un nuovo cinema, firmato Hermann o Sorrentino.
(in collaborazione con il Locarno Film Festival)
Mettersi a cercare il Ticino nel Locarno Film Festival potrebbe far pensare all’ovvio, se non alla schizofrenia. E invece eccola qua, la terra del Locarno Film Festival: da ospite a protagonista, da teatro dell’evento a location dei film che da oltre settant’anni quell’evento lo popolano. Sedici film tra i tanti, uno in fila all’altro, che hanno saputo raccontare il Ticino o che scegliendo il Ticino come quinta hanno saputo conquistare il pubblico, dal 1945 al 2019. 74 anni, precisi. Gli anni del Festival.
Nel 1945, pochi mesi prima della proiezione di O sole mio sul prato del Grand Hotel - la prima fra tutte del Locarno Film Festival - l’austriaco Leopold Lindtberg semina la sceneggiatura di Die Letze Chance tra Gandria e Mergoscia, tra Caprino e Lamone, raccogliendo una Palma d’oro a Cannes. Poi quarant’anni dopo, nel 1984, il film torna in quelle terre, al Locarno Film Festival, in Ticino. Quel Ticino in cui nel 1972 arriva anche un Alfredo carico di denaro, salvo arrivarci a banche chiuse. Inizia così, con lui, La più bella serata della mia vita, di Ettore Scola, a Locarno nel 2003 per l’omaggio a Dürenmatt. Lo stesso 2003 in cui la regione, tra Chiasso e Bellinzona passando da Lugano, avrebbe di nuovo accolto il cinema italiano offrendosi a Le conseguenze dell’amore, che nel 2009 accese Piazza Grande con l’estro del futuro Premio Oscar Paolo Sorrentino. Meraviglioso, in quegli anni, anche il racconto a cui prestò il volto e l’emozione un grande Teco Celio: L’amore probabilmente di Giuseppe Bertolucci, capace di dipingere la stazione di Lugano, il teatro di Bellinzona o il Ceresio con i tratti, le tinte e le espressioni dell’introspezione.
Eccolo quindi il Ticino dei ticinesi, di cui il Locarno Film Festival ha saputo essere trampolino e palcoscenico in anni - i primi del terzo millennio - mai così produttivi: dal 2007 di Fuori dalle corde di Fulvio Bernasconi al 2012 di Tutti giù di Niccolò Castelli, dal 2018 di Cronofobia di Francesco Rizzi al 2019 di Love Me Tender di Klaudia Reynicke, che da Locarno, con il suo Ticino in sedici noni e tuta blu, salpò con destinazione Toronto. Prima di Klaudia, nel 2015, a far correre la follia tra le valli ci aveva pensato Sabine Boss, con Vecchi pazzi. Ma se si parla di cinema ticinese a Locarno non si può non scivolare di un paio di decenni, per ritrovare Innocenza (1986) e Bankomatt (1989) di Villi Hermann, Pardo d’argento nel 1977 con San Gottardo e Premio Cinema Ticino nel 2011, ma soprattutto architrave del cinema ticinese e svizzero, capace di far vibrare le frequenze del thriller tra Chiasso e Airolo.
Poi ecco il cinema che Airolo lo oltrepassa, salvo però tornarci per girare. È il cinema degli autori oltre-gottardo; il cinema di Katalin Gödrös (Songs of Love and Hate, 2010), di Michael Steiner (Mein Name ist Eugen, 2005) o del gigante Francis Reusser, che a Locarno porta Seuls (1981) una pellicola che sembra misteriosamente legata al Ticino ma che in realtà non vi fu girata. E il cinema di Andres Pfäffli (Terra Bruciata, 1995), uno “svizzero tedesco ticinese”.
Un viaggio lungo, capace addirittura di andare oltreoceano e tornare insieme a Eugène Green (La Sapienza, 2014), ricordando una volta in più che per la lingua del cinema non c’è accento, cortina, confine o dogana che tenga. Una lingua che da Hollywood a Bissone, tra dighe e banche, passi e Piazze, da 74 anni non smette di conquistare gli occhi e il silenzio del nostro pubblico. In Ticino, a Locarno.